Il termine Yoga deriva dalla radice sanscrita yuj che letteralmente significa ‘unire, collegare’; lo Yoga infatti costituisce la scienza per la reintegrazione del sé individuale con il Sé supremo, della coscienza infinitesimale con la Coscienza cosmica.
Nella Bhagavad-gita vengono descritti diversi tipi di Yoga e Patanjali nel suo celeberrimo trattato sugli Yogasutra, che costituisce una delle prime e più importanti Scuole di psicologia del genere umano, definisce otto fasi di sviluppo della disciplina Yogica (Ashtanga Yoga) di cui la meditazione, dhyana, costituisce solo la penultima fase.
Prima di entrare in uno stato meditativo, l’aspirante yogi deve infatti purificare la propria mente ed il proprio cuore astenendosi da attività contrarie all’evoluzione spirituale, yama, e impegnandosi in attività ad essa favorevoli, niyama. Si deve poi diventare esperti nell’assumere posture, asana, che permettano di percepire il corpo il meno possibile e successivamente apprendere l’arte del respiro, pranayama.
Rivolgendosi verso l’interno e distogliendo i sensi dai loro oggetti, pratyahara, cercando di concentrare le proprie risorse attentive verso un’unica direzione, dharana, lo yogi si predispone alla meditazione vera e propria, dhyana appunto, in cui il proprio flusso di attenzione non è più distratto da interferenze esteriori e grazie alla quale egli giungerà ad uno stadio di completo assorbimento interiore definito samadhi.
Gli stadi precedenti il samadhi sono necessari per risolvere i conflitti tra le diverse strutture e funzioni psichiche, attraverso una armonizzazione della personalità, prima di aspirare ad un totale assorbimento nel seme meditativo, bija, e che dire nel sé.
L’approccio alla meditazione dev’essere graduale, poiché prima si devono sviluppare certe conoscenze derivanti dalla presa di consapevolezza di piccole verità, senza avere la presunzione di avere di volta in volta conquistato la Realtà, la Verità e dunque essersi illuminati definitivamente.
Quella che avviene durante la meditazione è una realizzazione continuativa e progressiva della Realtà, che lentamente si svela fino a diventare palese, manifesta, chiara e naturale, talmente naturale da non poter concepire qualcosa di differente da essa.
Ad esempio, per quanto riguarda la consapevolezza di essere diversi dal corpo, essa può avvenire in modo immediato, come nel caso di una diagnosi di malattia terminale, di una patologia irreversibile e degenerativa, che spinge il paziente a non concentrarsi sulla struttura fisica oggetto di quella devastazione, ma su se stesso. In quest’ottica, come riportato in numerosi lavori ECM tenutisi in numerosi ospedali e AUSL italiani, la morte non dev’essere vista come un evento fisico, qualcosa di concreto, ma più come un concetto astratto, in quanto non c’è veramente una fine di qualcosa, bensì c’è la trasformazione in qualcos’altro.
Oppure, la disidentificazione avviene come progressivo traguardo di un processo introspettivo che permette la comprensione del corpo come qualcosa che è esterno a noi, con il quale quindi non essere identificati ma come strumento prezioso, utile e caro per successive conoscenze ed esperienze.
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