Secondo le teorie classiche, nell’universo giovane questi giganti spaziali non avrebbero avuto il tempo di svilupparsi. Eppure, dicono le osservazioni, erano già presenti. Un nuovo studio della Sissa, pubblicato su The Astrophysical Journal, propone una risposta all’affascinante mistero.
Sono grandi miliardi di volte il nostro Sole: com’è quindi possibile che, come recentemente osservato, buchi neri supermassivi fossero già presenti quando l’universo, vecchio oggi di 14 miliardi di anni, era un giovanotto di “appena” 800 milioni di anni? Per gli astrofisici, la formazione di questi mostri cosmici in così poco tempo è un grattacapo scientifico che getta degli importanti interrogativi sulle attuali conoscenze sullo sviluppo di questi corpi celesti.
Un recente articolo pubblicato su The Astrophysical Journal, a firma dello studente di Phd della Sissa Lumen Boco e del suo supervisore Andrea Lapi, offre una possibile spiegazione alla spinosa questione. Grazie a un inedito modello teorizzato dagli scienziati triestini, lo studio propone un processo di formazione molto rapido nelle fasi iniziali dello sviluppo dei buchi neri supermassivi, quelle fino a oggi ritenute più lente. Provando matematicamente che sì, nell’universo giovane la loro esistenza era possibile, i risultati della ricerca mettono d’accordo così i tempi richiesti per la loro crescita con i vincoli imposti dall’età del cosmo. La validità della teoria potrà essere pienamente validata grazie a futuri rilevatori di onde gravitazionali quali Einstein Telescope e Lisa, ma testata in alcuni aspetti basilari anche con l’attuale sistema Advanced Ligo/Virgo.
Il mostro cosmico che cresce al centro della galassia
Nel loro studio, gli scienziati sono partiti da una ben nota evidenza osservativa: la crescita dei buchi neri supermassivi avviene nelle regioni centrali di galassie, progenitrici delle odierne galassie ellittiche, che erano molto ricche di gas e in cui la formazione stellare era estremamente intensa.
«Le stelle più grandi vivono poco e in tempi molto rapidi evolvono in buchi neri stellari, grandi qualche decina di masse solari; sono piccoli, ma in queste galassie se ne formano tantissimi». Il denso gas che li circonda, raccontano Boco e Lapi, produce su di loro un’azione, definitiva di frizione dinamica, che è molto potente e li porta a migrare molto rapidamente verso il centro della galassia. In quelle regioni centrali, gran parte dei numerosi buchi neri che vi arrivano si fondono insieme, creando così il seme del buco nero supermassivo. Continuano Boco e Lapi: «Secondo le teorie classiche, un buco nero supermassivo cresce al centro di una galassia catturando la materia circostante, principalmente gas, “accrescendola” su di sé e infine divorandola ad un ritmo che è proporzionale alla propria massa. Per questo, nelle fasi iniziali del suo sviluppo, quando la massa del buco nero è piccola, la crescita è molto lenta. Al punto che, secondo i calcoli, per raggiungere le masse osservate, miliardi di volte quella del Sole, si richiederebbe un tempo molto lungo, maggiore addirittura dell’età dell’universo giovane». Il loro studio, però, dimostra che le cose potrebbero andare molto più rapidamente di così.
La folle corsa dei buchi neri: ecco cosa hanno scoperto gli scienziati
«I nostri calcoli numerici mostrano che il processo di migrazione dinamica e fusione dei buchi neri stellari può portare il seme del buco nero supermassivo a raggiungere una massa compresa tra le 10mila e le 100mila volte il Sole in soli 50-100 milioni di anni». A questo punto, raccontano i ricercatori, «la crescita del buco nero centrale secondo il suddetto processo di accrescimento diretto di gas, previsto dalla teoria standard, diventerà rapidissima, perché la quantità di gas che riuscirà ad attirare e assorbire diventerà immensa, e predominante sul processo da noi proposto. Tuttavia, proprio il fatto di partire da un seme così grande come provvisto dal nostro meccanismo velocizza la crescita globale del buco nero supermassivo e ne consente la formazione anche nell’universo giovane. Alla luce di questa teoria, insomma, possiamo affermare che 800 milioni di anni dopo il Big Bang i buchi neri supermassivi potevano già popolare il cosmo».
“Guardar” crescere i semi dei buchi neri supermassivi
Nell’articolo, viene non solo illustrato il modello e dimostrata la sua efficacia, ma è anche proposto un metodo per testarlo. «La fusione dei numerosi buchi neri stellari con il seme di quello supermassivo centrale produrrà onde gravitazionali che ci aspettiamo di vedere e studiare con i rivelatori presenti e futuri», spiegano i ricercatori. In particolare, le onde gravitazionali emesse nelle prime fasi, quando il seme del buco nero centrale è ancora piccolo, saranno identificabili dai rivelatori attuali come Advanced Ligo/Virgo e pienamente caratterizzabili dal futuro Einstein Telescope. Le fasi successive di sviluppo del buco nero supermassivo potranno invece essere investigate grazie al futuro rivelatore Lisa, che verrà lanciato nello spazio attorno al 2034. In questo modo, spiegano Boco e Lapi, «il processo da noi proposto potrà essere validato nelle sue diverse fasi, in maniera complementare, dai futuri rivelatori di onde gravitazionali».
«Questa ricerca», conclude Andrea Lapi, coordinatore del Gruppo di astrofisica e cosmologia della Sissa e associato Inaf, «testimonia come gli studenti e i ricercatori che animano il nostro gruppo di ricerca stiano pienamente approcciando la nuova frontiera delle onde gravitazionali e dell’astronomia multi-messaggera. In particolare, il nostro principale obiettivo sarà di sviluppare modelli teorici, come quello messo a punto in questo caso, che servano a capitalizzare le informazioni provenienti dagli esperimenti di onde gravitazionali attuali e futuri, sperabilmente fornendo così soluzioni a questioni irrisolte legate all’astrofisica, alla cosmologia e alla fisica fondamentale».
Fonte: comunicato stampa Sissa
The Astrophysical Journal: “Growth of Supermassive Black Hole Seeds in ETG Star-Forming Progenitors: Multiple Merging of Stellar Compact Remnants via Gaseous Dynamical Friction and Gravitational Wave Emission”, di L. Boco, A. Lapi e L. Danese
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