Ai cinesi piace il nostro vino ma non glielo vendiamo
Qualche settimana fa a Verona si è tenuta la settimana del Vinitaly 2012. Nel corso dell’evento, ampio risalto è stato dato alle esportazioni record del vino italiano che, nel 2011, secondo i dati recentemente diffusi dall’Istat, hanno raggiunto un valore di 4,4 miliardi di euro e un volume di 24 milioni di ettolitri, portando l’Italia ad una quota di mercato del 22% a livello mondiale.
Risultati sicuramente notevoli, che l’Italia ha raggiunto prevalentemente nel mondo occidentale. Se si considerano i principali mercati di sbocco per i prodotti vinicoli italiani, si noterà che i primi tre posti sono occupati da Usa, Germania e Regno Unito; se ci si concentra sui trend relativi alle quote di mercato (fonte: Nomisma) si può osservare invece una crescita del vino italiano in quasi tutti i Paesi, a eccezione di Brasile e Cina.
quote di mercato mondiale del vino italiano (Fonte: Nomisma)
Proprio i Paesi in via di sviluppo, e in particolar modo la Cina, rappresentano una di quelle criticità che, insieme alla contrazione dei consumi interni, rischiano un domani di offuscare gli attuali brillanti risultati. Perché enfatizzare la nostra performance insoddisfacente visto che riguarda solo pochi Paesi?
In primo luogo perché Cina e Brasile rappresentano attualmente le locomotive dell’economia mondiale e ciò vale anche per il comparto vinicolo. Già oggi la Cina è il quinto mercato al mondo per quantità di vino consumata e secondo numerosi analisti diventerà il primo entro il 2020. In secondo luogo perché i principali clienti dei produttori vinicoli italiani sono quei Paesi occidentali che, risentendo maggiormente della crisi, rischiano di diminuire la loro domanda verso prodotti di questo tipo. Svilupparsi in mercati dove esistono comunità italiane molto numerose come negli Stati Uniti significa “vincere facile” mentre la vera sfida è laddove il consumo cresce ma dove l’Italia è poco presente in tutti i sensi.
Proprio per questo vale la pena di indagare le ragioni delle difficoltà del vino italiano ad affermarsi sui mercati in via di sviluppo.
In Cina attualmente il comparto dei vini importati è assolutamente dominato dai produttori francesi mentre l’Italia, negli ultimi dieci anni, ha visto ridursi la propria quota di mercato dal 14,2% del 2001 al 6,5% del 2011. Quindi, nonostante i risultati positivi ottenuti nel 2010 e nel 2011 e i proclami trionfali di molte istituzioni, in Cina il vino italiano si trova ancora in una posizione marginale.
Peso dei Bric nel consumo di vino mondiale
Su 100 bottiglie di vino che vengono importate in Cina da Paesi stranieri, 6 sono italiane mentre ben 55 battono bandiera francese. I transalpini si dimostrano più bravi di noi nel marketing, nella promozione dei prodotti e nella comunicazione, risultando così vincenti in un mercato come la Cina, un Paese dove il vino è un prodotto style-simble, in cui gran parte dei consumatori dimostra una scarsa conoscenza dei marchi e un modestissimo livello di educazione eno-gastronomica.
Come recentemente spiegato dal presidente del Conseille Des Vin du Medoc, Philippe Dambrine: «Una delle leve del nostro successo è nel rapporto tra produzione e distribuzione; sul fronte della promozione all’estero dei nostri vini i due anelli della filiera lavorano in un rapporto di stretta collaborazione». Nel modello francese è quindi fondamentale il rapporto produttore-distributore, dove per distributore però, non s’intende la grande distribuzione organizzata, che in Cina conta solo per il 15% del mercato, ma l’importatore. I produttori francesi hanno infatti investito, negli ultimi anni, ingenti risorse per aiutare gli importatori/distributori a collocare i propri prodotti sul mercato e sono appunto gli investimenti in marketing che hanno portato alla grande differenza in termini di quota di mercato tra vini francesi e vini italiani sul mercato cinese. I francesi, inoltre, hanno investito milioni di euro per alimentare una presenza diretta sul territorio che conta circa 1.500 persone, in gran parte venditori e con la presenza anche di giovani di origine francese, dedicati al settore.
L’Italia, invece, è ancora alle prese con modelli superati, come la ricerca di un agente/importatore nelle fiere, che spesso ha significato lasciare la vendita dei propri vini nelle mani di un importatore spesso francese o spagnolo che non ha dunque il minimo interesse a promuovere la vendita del prodotto italiano. È come se la Fiat affidasse le proprie vendite in Cina alla Renault. Ma come può l’Italia con il suo tessuto produttivo dominato da piccole imprese, spesso caratterizzate da disponibilità finanziare limitate, trovare le risorse per cambiare lo status quo?
Innanzitutto è necessario dedicare una particolare attenzione ai mercati in via di sviluppo e, nel caso della Cina, evitare di giudicare in modo eccessivamente superficiale Hong Kong come chiave per comprendere il consumatore cinese. Da alcuni punti di vista la scelta di Verona Fiere e di molti produttori italiani di concentrare l’attenzione su Hong Kong è facilmente comprensibile in quanto, per ragioni storico-sociali, questa città rappresenta sicuramente un mercato più maturo e di facile accesso rispetto alla Cina, ma proprio per questo motivo è caratterizzato anche da potenzialità di crescita notevolmente inferiori rispetto a quelle che possono offrire, con opportuni investimenti, città come Shanghai, Guangzhou, Chengdu o Chongqing.
Peraltro è quasi impossibile che Hong Kong, date le differenze culturali che la caratterizzano rispetto al resto della Cina, possa rappresentare un’esperienza utile per una futura espansione sul mercato cinese. È inoltre importante cercare di evitare errori come quello recentemente apparso nella newsletter di Vinitaly in the World di Marzo 2012 in cui si parla di “mercato del Sol Levante” riferendosi alla Cina, errori che tradiscono una certa superficialità ignoranza e che non sono certo graditi agli operatori cinesi.
La chiave di volta per il vino italiano deve essere dunque rappresentata innanzitutto da una presa di coscienza del fatto che, come recentemente sostenuto da Angelo Gaja, il successo sui mercati esteri dipenderà sempre più dalla capacità dei nostri imprenditori di fare sistema e sempre meno dai contributi comunitari. Solo se unite le imprese italiane potranno avere le risorse, le capacità e la massa critica necessaria per approcciare in modo efficace realtà complesse e geograficamente lontane come la Cina, costituendo un forte nesso tra produzione e distribuzione e iniziando quindi a colmare quel gap in termini di marketing che il vino francese vanta nei confronti del vino italiano.
Fonte: http://www.linkiesta.it/anche-nel-vino-l-italia-non-sfonda-cina#ixzz1tKKaJCJw
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