Ci professiamo tutti democratici, almeno a parole, anche se, più o meno consciamente, continuiamo a tollerare il dominio di un sistema economico-culturale che nulla ha da invidiare al nazismo. C’è un razzismo quotidiano che imperversa e ci condiziona, dal linguaggio alle abitudini alimentari, e che si ripresenta puntualmente ogniqualvolta apostrofiamo qualcuno con epiteti desunti dal mondo animale o consentiamo, come se fosse scontato, che a tavola ci portino una bistecca, una braciola, un cosciotto, un filetto di tonno, un guazzetto di cozze, una fettina di formaggio o mozzarella, una frittata o, ancora, sorseggiamo un bicchiere di latte “salutare” o indossiamo un capo di abbigliamento in pelle.
C’è una presunta “normalità” che gronda sangue e risulta inaccettabile. Parafrasando un noto aforisma di Adorno, Auschwitz inizia ogni volta che passando da un bancone di un supermercato, dalla vetrina di una pellicceria o ci sediamo per mangiare facciamo le spallucce e diciamo che si tratta “solo di animali”, dimenticando, tra l’altro, che anche noi lo siamo nonostante indegnamente ci riteniamo superiori alle altre specie. Se si dà per scontata l’esistenza di un mattatoio, non ci si può stupire o indignare degli stermini di massa che hanno infangato il secolo trascorso. È eccessivo? Nient’affatto. Siamo circondati da migliaia di Buchenwald, Birkenau, Dachau.
Accettiamo, quasi per tacito patto, per viltà o convenienza, di convivere con l’orrore e, come per i tedeschi sotto il nazismo, fingiamo di non rendercene conto, di ignorarlo, lasciando che le urla di milioni e milioni di altri esseri rinchiusi in allevamenti intensivi, deportati in viaggi a dir poco infernali, seviziati, sventrati, sgozzati, massacrati non giungano alle nostre orecchie. Non vogliamo che i brandelli di carne che penzolano dai ganci o, confezionati nel cellofan, stanno in bella (orribile) mostra turbino i nostri sogni, la nostra (pessima) coscienza.
Operiamo una sorta di rimozione, finendo per considerarli anonimi pezzi di una catena di (s)montaggio. Viviamo in trance, come se il nazismo non esistesse, non fosse mai esistito. Teniamo il più lontano possibile da noi, dalle nostre case, dalle nostre città, gli allevamenti, i mattatoi, i laboratori di pellicceria, gli stabulari dove si consuma la “sperimentazione” animale. Facciamo sì che questi luoghi di reclusione e assassinio siano privi di trasparenza, negati alla visibilità. Se, infatti, così non fosse, si incrinerebbe, a poco a poco, quel sistema di produzione, sfruttamento, mercificazione su cui si regge il capitalismo. Un sistema che si estende, trasferisce e sovrappone pedissequamente a livello sociale.
Non a caso, Horkheimer è arrivato a descrivere la nostra società come un grattacielo la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto una cattedrale. In cima stanno i «grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici» e alla base i poveri, i vecchi, i malati. «Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra andrebbe rappresentata – ha scritto Horkheimer – l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali». Era forse Horkheimer un “pericoloso estremista animalista” o non, invece, un lucido analista dei meccanismi totalitari che contribuiscono a rendere sempre più esclusivamente nominalistica e svilita la nostra democrazia?
La sociologa e psicologa Melanie Joy non ha dubbi in merito: Horkheimer ha efficacemente immortalato il contesto sociale in cui, volenti o nolenti, siamo immersi. Un contesto, si badi bene, che, è vero, si protrae da secoli, ma che può (e deve) essere radicalmente cambiato. Dipende da noi, soltanto da noi. In “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche”, la Joy definisce “carnismo” l’ideologia che sostiene la violenza nei confronti degli altri esseri senzienti e che spaccia come incontrovertibile l’assunto secondo cui la carne sarebbe essenziale e ineliminabile dalla nostra alimentazione. Così ovviamente non è e, con intelligenza e dovizia di documentazione, l’autrice mostra come il “carnismo” altro non sia che una delle tanti varianti dello “specismo”, della concezione cioè che legittima l’(auto)conferimento da parte dell’uomo del proprio dominio sugli altri esseri e sull’intero mondo naturale.
Gli esiti devastanti e criminogeni di una simile visione sono sotto gli occhi di tutti e si riassumono in quello che Jeremy Rifkin ha efficacemente chiamato “ecocidio”, vale a dire la metodica distruzione dell’ecosistema planetario. Sulla scia di autori come Charles Patterson, Jim Mason, Jonathan Safrar Foer, Michael Pollan, la Joy si addentra in una severa requisitoria sugli allevamenti intensivi, sull’inaudita barbarie che ogni giorno, nell’omertoso, connivente, silenzio-assenso imposto dai mezzi di comunicazione, si abbatte su un numero sterminato di mucche, vitelli, agnelli, maiali, tacchini, galline, oche, pesci in luoghi “di dominio” in cui il nazismo celebra il proprio apogeo.
Per non parlare di cosa si cela dietro la produzione di latte, di uova o della cosiddetta “carne felice”, cioè dei posti in cui l’animale sarebbe nutrito “all’aperto”, “in modo naturale”, con mangimi privi di antibiotici, estrogeni e altri additivi, per andare “felicemente” incontro alla stessa fine, allo stesso macello, degli altri suoi simili allevati negli stabilimenti dei grandi gruppi industriali alimentari. Questo massacro, questo olocausto, paradossalmente visibile nonostante la propria invisibilità, può (e deve) però cessare. Spetta a noi la consapevolezza di una svolta.
Melanie Joy mette l’accento sul valore della testimonianza, sulla presa di coscienza che ognuno è chiamato a compiere per spezzare la catena di dolore e sangue che sta alla base del nostro sistema produttivo mercificante. Oggi sono sempre di più coloro che, in opposizione a questo sistema, adottano scelte di vita nonviolente, dal mangiare all’abbigliamento. E parallelamente aumentano coloro che, nel nome di una ricerca scientifica meritevole di tale nome, e quindi non dogmatica e non assoggettata agli interessi delle multinazionali e di potentati universitari, si oppongono al mito della inderogabilità della sperimentazione animale.
Piaccia o no a pseudoscienziati, devoti più allo scientismo che alla vera scienza, a saccenti epistemologi o a nutrizionisti cortigiani e macellai, un nuovo movimento è nato, sta andando avanti e niente e nessuno potrà arrestarlo. Il caso Green Hill lo ha ampiamente dimostrato. Una “nuova sensibilità”, per citare Herbert Marcuse, “è diventata forza politica”. È e sarà sempre di più contagiosa, estremamente contagiosa, perché reca il virus della liberazione dalla “carnocrazia” e da ogni forma di sfruttamento.
Francesco Pullia
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