di Simona MartiniIl ddl sulla diffamazione arranca al Senato tra veti, forzature e accordi sfumati. Sullo sfondo la grande incognita del web, laboratorio di forme ‘liquide’ di comunicazione che spesso sfugge ai nostri politici e alla loro capacità di fare leggi efficaci.
Le strade del ddl. Le vie percorribili dal provvedimento sono due, entrambe accidentate. La prima è maturata dopo la sessione di lavori odierna, fitta di riformulazioni e di accantonamenti, che si è conclusa con il rinvio dei lavori, ma anche con l’impegno del presidente di turno, Vannino Chiti, di consultarsi con il presidente Schifani sulla possibilità di rinviare in commissione il solo articolo 1 del provvedimento – il cosiddetto salva-Sallusti che elimina il carcere per i giornalisti e riformula le sanzioni amministrative.
L’altra è la lotteria degli emendamenti, che per molti osservatori rischia di trasformarsi in un tiro al bersaglio all’informazione da parte di una classe politica mai così sovraesposta da scandali e privilegi vari. Tra i nodi più complessi c’è la potenziale equiparazione tra la stampa propriamente detta e ogni tipo di informazione veicolata sul web.
I confini dell’informazione. Siti internet di carattere editoriale. E’ questa la formula che ancora una volta rischia di far precipitare blog e siti web che non sono registrati come testate giornalistiche nel calderone del ddl diffamazione. Solo in teoria, a mezzo stampa, perché la pioggia di emendamenti piovuta sul testo potrebbe trasformare il provvedimento da “semplice” modifica al codice penale per convertire le pene detentive in multe piuttosto salate in un testo dal sapore reazionario. Alle leggi che solitamente riguardano i media potrebbe dover rispondere buona parte del popolo del web. Non tanto gli articoli, quanto gli emendamenti mirano ad applicare l’obbligo di rettifiche, dichiarazioni, e relative sanzioni anche a generici siti internet o nel caso di un minimo di ‘discernimento’ a siti di natura editoriale.
Il testo. Il Ddl prevede l’obbligo di rettifica, senza commenti e pubblicate nella loro interezza, per tutti: per le testate giornalistiche diffuse telematicamente, entro 48 ore dalla richiesta, ma anche per la stampa ‘non periodica’, ovvero i libri. E’ possibile chiedere ‘ai siti internet e ai motori di ricerca l’eliminazione dei contenuti diffamatori o dei dati personali’; sono previste multe da 5mila a 100mila euro, da raddoppiate in caso di recidiva e diminuire in caso di pubblicazione della rettifica; confermato il reato di omesso controllo da parte del direttore responsabile o del vicedirettore, a cui spetta il compito di vigilare sul contenuto della testata, con un aggravio di pena nel caso in cui a diffamare sia un professionista ‘recidivo’: già sospeso, radiato o interdetto in precedenza.
Tutti contro il web. In principio il testo prevedeva, oltre all’aumento delle sanzioni, una piccola modifica per aggiornare, forse con ritardo, i tipi di reati all’era di internet per quanto riguardava almeno l’ingiuria: “Alla stessa pena – ovvero una multa fino a 1500 euro – soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica, telefonica o telematica”. L’ultima parola la vera novità. Così il web ha fatto capolino all’interno del Ddl bipartisan. Ma poi una volta arrivato in Commissione Giustizia del Senato è iniziato il festival degli emendamenti con proposte di modifica del codice penale e della vecchia legge del ’48. Fra gli emendamenti: “Le disposizioni della presente legge si applicano, altresì, ai siti internet aventi natura editoriale”; “dopo le parole: ‘nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia di stampa’ sono inserite le seguenti: ‘, ivi compresi i siti informatici’. Con risultati alterni, fra bocciature, ritiri e modifiche, che fosse per salvare Sallusti o meno, è apparsa subito chiara la volontà di paragonare il web alla stampa per sottoporlo alla stessa regolamentazione. E in questo senso va proprio l’emendamento già approvato che prevede la rettifica per i “prodotti editoriali diffusi per via telematica, con periodicità regolare e contraddistinti da una testata”. Da approvare, o meno, l’emendamento che recita: “Ai fini della applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo i siti internet e i motori di ricerca indicano e rendono pubblico nella propria pagina iniziale il nome del soggetto responsabile”.
Insomma pare che la classe politica abbia deciso di cogliere la palla al balzo per sistemare i conti con Internet e con la libertà d’espressione.
Le proteste della Rete. Numerose le mobilitazioni del web, a partire dal messaggio di aiuto lanciato dall’edizione italiana di Wikipedia. L’endiclopedia creata dagli utenti non avrebbe ragione di esistere se entrasse in vigore la rettifica obbligatoria. Molto dura l’Aigol, associazione italiana giornali online, che definisce il provvedimento una “norma inutile e troppo rigida in una materia estremamente sensibile come la libertà di parola. Esistono già nel nostro Paese organi competenti destinati a difendere e punire i giornalisti, facciamoli lavorare. Noi in quanto editori non troviamo corretto e sensato aumentare la confusione della regolamentazione con norme solamente punitive, noi non siamo per il carcere ai giornalisti colpevoli di diffamazione e nemmeno a multe ‘astronomiche’ che punirebbero solo noi editori online”.
Il testo non fa impazzire nessuno, tanto che l’altra ipotesi – bocciata dal Senato per alzata di mano – era il ritorno del provvedimento in Commissione giustizia per ripartire da zero. ”Anche con un senso di sconfitta – aveva detto Anna Finocchiaro del Pd prima del voto – chiedo ai colleghi di porre in votazione il ritorno in commissione del testo del ddl sulla diffamazione a mezzo stampa. Probabilmente lì saremo in grado di confezionare un testo che l’Aula non avverta come una violenza”.
via oggi24.it
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