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Helga Schneider, quando la vita è memoria

In questi tempi in cui le parole guerra e genocidio sono ritornate ad essere di uso comune, autori come Helga Schneider, che ha fatto della memoria la sua missione, ci sono quantomai necessari. Approfittiamo quindi della Giornata della Memoria, in cui si ricordano le vittime della Shoah, per conoscere meglio una scrittrice alle opere della quale, almeno una volta nella vita, tutti dovremmo approcciarci.



In occasione della Giornata della Memoria, ricordiamo le atrocità del nazismo attraverso le parole della scrittrice tedesca, classe 1937

Nata in Germania nel 1937, racconta nei suoi libri, spesso ispirati alle sue vicende personali, gli orrori della Seconda Guerra Mondiale e del Nazismo, dalla prospettiva di una bambina ariana, diventata donna, alla quale il Nazismo ha tolto moltissimo. Fu infatti abbandonata a soli cinque anni dalla madre, che era entrata a far parte delle SS, come guardiana nel Lager femminile di Ravensbrück e, in seguito, a Birkenau. Venne poi condannata a sei anni di prigione in seguito al processo di Norimberga per crimini di guerra. Fino ai giorni nostri, Helga ha speso la sua intera vita cercando di liberarsi del suo ricordo, di quel legame che non è mai riuscita a spiegarsi, nemmeno quando ritrovò Traudi nel 1971, ormai anziana e ancora ferma nel non rinnegare il suo passato tra le fila dei nazisti, e poi nel 1998. Di lei dice infatti, nel libro Lasciami andare, madre (2001) in cui racconta quei due incontri:

«Sto per andarmene, e ho paura che non riuscirò a spezzare il legame che mi unisce a lei. E dire che ho tentato di farlo mille volte, in mille modi diversi. Perfino rinnegando la mia madrelingua. Qualche tempo dopo la visita a Vienna nel 1971, incontrai a Bologna una connazionale che, naturalmente, cominciò a parlarmi in tedesco. Mi bastarono poche frasi per rendermi conto che non ero più in grado di parlare correttamente e correntemente la mia lingua. Rimasi atterrita. Fu come accorgersi di aver perso un arto senza aver sentito alcun dolore. Un po‘ come in guerra, quando salta via una gamba e il ferito continua a correre finché non cade, e solo allora comprende il motivo per cui non sta più in piedi».

La scrittrice Helga Schneider

Schneider scrive infatti, da sempre, in italiano; la lingua del suo matrimonio, della sua nuova esistenza. Lega il tedesco alla sua infanzia, a quella madre che, ritrovandola dopo trent’anni, non sa fare altro che chiederle di indossare la sua vecchia divisa da SS. Una madre che sostiene che, a Birkenau, andava tutto bene, e che ricorda gli anni da guardiana come i migliori della sua vita. Helga vorrebbe farle molte domande, ma molte resteranno senza riposta. Continua così, sempre in Lasciami andare, madre: «Neanche le madri coi neonati al collo ti facevano pietà, quando entravano nelle camere a gas? Neanche i bambini?». Vorrebbe intravedere un briciolo di umanità, e vorrebbe anche cercare di capire come la sua stessa madre abbia potuto prendere parte a un meccanismo così terribile. «Ora dimmi che cosa vuoi che ti risponda» è tutto ciò che riesce a dirle la madre, che il dolore causato alla figlia e a tutti i milioni di persone morte nei campi di sterminio, non è mai riuscita a comprenderlo.

Helga Schneider e il fratello Peter da bambini

Dopo l’abbandono della madre, nel 1941, a poco valse il tentativo del padre Stefan di ridare ai suoi figli una figura materna, sposando la giovane Ursula. La donna, infatti, non accettò mai Helga, ma solamente suo fratello Peter. Per questo, Schneider trascorse qualche tempo in un istituto per bambini problematici, e poi in un collegio per ragazzi indesiderati dalle famiglie. Fu riportata a Berlino nel 1944 da Hilde, la sorella della matrigna, che a dicembre di quello stesso anno riuscì a farla scegliere, insieme al fratello Peter e ad altri bambini berlinesi, per essere una dei piccoli ospiti del Fuhrer. Prenderà ovvero parte ad un’operazione di propaganda ideata da Joseph Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich, che la porterà nel bunker di Adolf Hitler, dove incontrerà quest’ultimo. Proprio in quell’occasione verrà a conoscenza dell’esistenza dei campi di concentramento e di ciò che succedeva al loro interno, da una madre ospite del bunker con i suoi bambini, il cui marito ricopriva un’alta carica nel campo di sterminio di Dachau. Nel suo ultimo libro, Un balcone con vista Bismarckstrasse, racconta che, in quell’occasione, sentì dire:

«Auschwitz ha quattro forni crematori che consentono l’incenerimento di oltre quattromila corpi all’ora […]. Bruciano gli ebrei. Prima li uccidono col gas. Mi creda, è il metodo più rapido e pulito, muoiono in pochi minuti […]. Questi giudei sono come certi parassiti che si annidano al pelo degli animali di razza.»

Sono passati ottant’anni da quegli eventi, e la madre della scrittrice è morta nel 2001, sempre fiera del suo passato. Il suo ricordo, però, vive ancora ogni giorno in Helga, che non riesce a smettere di scrivere sul suo passato, sulla Shoah e su come per lei, sia impossibile dimenticare.

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